Dott. Andrea Nardin
Nelle scorse settimane nei giornali si è molto parlato del fatto che la Corte di Cassazione (ordinanza n. 2675 del 05.02.2018) ha riconosciuto il diritto, anche per il padre, di essere risarcito per il c.d. danno da nascita indesiderata.
Facciamo quindi un po’ di chiarezza in merito a questa discussa voce di danno avente ad oggetto una materia che, evidentemente, va a toccare anche temi etici e morali.
In primo luogo, il danno da nascita indesiderata rientra nell’ambito della responsabilità medica e, quindi, di errori compiuti dai sanitari nel corso dell’assistenza fornita ai pazienti.
In particolare si parla di nascita indesiderata in tre ipotesi:
- quando, a causa di una errata diagnosi prenatale, non viene individuata una malformazione del feto, impedendo così alla madre di decidere consapevolmente se interrompere o meno la gravidanza;
- quando, sussistendone i presupposti di legge, viene realizzata un’interruzione di gravidanza e questa non va a buon fine per colpa del medico;
- quando si ha la nascita di un figlio nonostante un precedente (e mal realizzato) intervento di sterilizzazione sia maschile che femminile.
Le prime due fattispecie sono strettamente connesse a quanto previsto dalla l. 22 maggio 1978 n. 194 rubricata “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”.
Sebbene la legge preveda stringenti vincoli per l’aborto, nella prassi viene lasciata ampia libertà alla donna nello scegliere se proseguire o meno la gravidanza entro i primi 90 giorni dal concepimento (art. 4). Decorso questo termine l’interruzione può essere richiesta solamente quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna o quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della stessa (art. 6).
Attraverso queste norme il legislatore opera un bilanciamento tra il diritto riconosciuto alla madre di autodeterminarsi ed il diritto alla vita del nascituro confermando il principio costituzionale di prevalenza della la salvezza della madre, già persona, su quella dell’embrione, che persona deve ancora diventare (Corte Cost. 18 febbraio 1975 n. 20).
All’interno di questa cornice normativa si colloca quindi la questione del riconoscimento del danno da nascita indesiderata i cui presupposti sono:
– sussistenza delle condizioni richieste dalla l. 194/1978 per poter abortire;
– mancata diagnosi della malformazione del feto (n. 1) od errato intervento del medico (n. 2 e 3);
– sussistenza della volontà abortiva della donna qualora fosse stata correttamente informata.
La fonte della responsabilità del medico è l’impossibilità di scelta della madre imputabile ad un errore medico o alla negligente carenza diagnostica e informativa fornitale. La gestante, infatti, si affida al medico professionista sul quale grava l’obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato alle sue richieste in materia di assistenza medica. L’omessa diagnosi di una malformazione del feto, oltre ad essere potenzialmente rischiosa per la salute della madre, qualora conosciuta potrebbe indurre quest’ultima a decidere di interrompere la gravidanza.
Il risarcimento di questo danno potrà, in primo luogo, essere richiesto direttamente dalla madre. La giurisprudenza si è interrogata se anche il padre ne abbia diritto. Ed è in questo ambito che si colloca la recente ordinanza (Cass. Civ. n. 2675 del 05 febbraio 2018) avente ad oggetto una erronea esecuzione di un intervento di raschiamento uterino (effettuato in ragione della errata diagnosi di aborto interno) a seguito del quale la gravidanza era proseguita. La Corte ha stabilito che il risarcimento dei danni per erronea diagnosi concernente il feto e la conseguente nascita indesiderata spetta non solo alla madre ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che gravano sullo stesso. In particolare veniva riconosciuto come risarcibile il danno patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli.
In realtà il diritto al risarcimento – anche del danno non patrimoniale – in capo al padre era stato riconosciuto, in alcune isolate pronunce, già dai primi anni 2000 quando veniva affermato “qualora l’imperizia del medico impedisca alla donna di esercitare il proprio diritto all’aborto, e ciò determini un danno alla salute della madre, è ipotizzabile che da tale danno derivi un danno alla salute anche del marito“.
Ma il punto più discusso risulta senz’altro essere la legittimazione del nascituro a chiedere il risarcimento ‘in proprio’ del danno derivante dalla sua nascita indesiderata.
Un primo ostacolo riguardava il riconoscere la legittimazione a chi, al momento della condotta del medico, non era ancora soggetto di diritto: l’art. 1 c.c. afferma infatti che “la capacità giuridica si acquista al momento della nascita”.
Questo problema è stato risolto affermando che si può pervenire alla tutela del nascituro senza postularne la soggettività ma semplicemente considerandolo oggetto di tutela (Corte Cost. 18 febbraio 1975 n. 27) come peraltro positivizzato, tra le altre, nella normativa in materia di procreazione medicalmente assistita (art. 1, co. 1, l. 19 febbraio 2004 n. 40).
Tuttavia in caso di errore diagnostico, l’alternativa alla nascita indesiderata sarebbe la non vita determinata dall’interruzione di gravidanza (e non il nascere sani, atteso che – in questi casi – non vi è alcuna responsabilità del medico nel danneggiamento del feto) e, nel nostro ordinamento, non si può certo parlare di un diritto a non nascere.
Pertanto, se da un lato viene riconosciuto il diritto dei genitori al risarcimento del danno da nascita indesiderata, questo diritto non può essere riconosciuto al figlio in quanto non può affermarsi l’esistenza di un diritto a non nascere.
E nemmeno viene riconosciuto un diritto al risarcimento in capo ai fratelli del nascituro in quanto, secondo la giurisprudenza, al momento dell’evento non esiste ancora un legame significativo e, comunque in capo ai fratelli, non sono configurabili obblighi e doveri equiparabili a quelli previsti per i genitori (si segnala che vi sono, comunque, isolate pronunce –trattasi di giurisprudenza del tutto minoritaria – che riconoscono il diritto al risarcimento dei fratelli).
In questi casi potrà quindi essere riconosciuto, in capo agli aventi diritto, anzitutto il danno non patrimoniale – ed in particolare biologico – qualora vengano accertate delle patologie psico-fisiche in capo ai genitori derivanti dal parto non voluto. Viene poi ritenuto, in ogni caso, risarcibile il danno patrimoniale avente ad oggetto le spese necessarie per il mantenimento e l’educazione del figlio fino al raggiungimento della sua indipendenza economica (per esemplificare il Tribunale di Reggio Emilia con sentenza del 07.12.2015 ha ritenuto congrui 300 Euro mensili fino al ventitreesimo anno di età del nascituro).
Infine la giurisprudenza si è interrogata sulla prova che deve essere data dalla madre in merito alla sua volontà – qualora fosse stata posta a conoscenza delle menomazioni del feto – di non portare a termine la gravidanza. Il problema riguarda evidentemente l’esigenza di fornire una rappresentazione immediata e diretta di un fatto psichico interno alla donna.
Le Sezioni Unite hanno risposto affermando che tale onere probatorio può essere assolto tramite la dimostrazione di altre circostanze dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all’esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare – e, quindi, della volontà abortiva – attraverso il consolidato parametro del “più probabile che no” (Cass. Civ. SS. UU. n. 25767/2015).
Dott. Andrea Nardin