AFPC – Facchinello – Fontana
Fideiussione conforme allo schema ABI: presunzione di intesa anticoncorrenziale
La coincidenza di alcune clausole di un contratto di fideiussione con quelle dichiarate in contrasto con la Legge n. 287/1990, art. 2 dalla Banca d’Italia nel 2005 vale ad integrare un sufficiente indizio circa la volontà della banca di realizzare l’effetto distorsivo della concorrenza, recependo lo schema di categoria e così uniformando la disciplina contrattuale delle fideiussioni omnibus nei termini più vantaggiosi per il sistema creditizio.
Al fine di comprendere la portata applicativa del principio di diritto sopra enunciato (espresso con una recentissima ordinanza dal Tribunale di Vicenza del 17/09/2020), sono necessarie alcune premesse, di seguito sinteticamente esplicate.
Lo schema ABI per la fideiussione omnibus.
Nel mese di ottobre 2002, l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) – alla quale aderisce pressoché la totalità delle banche – concordava lo schema del contratto di fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie (schema ABI per la fideiussione omnibus).
Detto schema conteneva, tra le altre, le seguenti clausole:
– art. 2: “il fideiussore è tenuto a rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo”;
– art. 6: “i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall’art. 1957 cod. civ., che si intende derogato”;
– art. 8: “qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l’obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate”.
Il provvedimento della Banca d’Italia del 2005.
L’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato (AGCM) apriva l’istruttoria ai sensi degli artt. 2 e 14 della Legge n. 287/1990, all’esito della quale la Banca d’Italia accertava che gli articoli 2, 6 e 8 del predetto schema ABI per la fideiussione omnibus contengono disposizioni che, nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme, sono in contrasto con l’articolo 2, comma 2, lettera a), della Legge n. 287/1990.
In altre parole, la Banca d’Italia ha accertato che, per mezzo delle clausole in oggetto, le banche aderenti all’ABI realizzano un’intesa anticoncorrenziale vietata[1].
Nello specifico, l’art. 6 dello schema ABI, nel derogare all’art. 1957 cod. civ. – il quale subordina la permanenza dell’obbligazione di garanzia del fideiussore, dopo la scadenza dell’obbligazione principale, alla circostanza che il creditore abbia proposto e diligentemente continuato le sue istanze nei confronti del debitore entro il termine di sei mesi – disincentiverebbe la banca dal proporre e proseguire diligentemente le proprie istanze entro i termini previsti da detta norma, arrecando un vantaggio alla banca creditrice, che in questo modo, disporrebbe di un termine molto lungo (coincidente con quello della prescrizione dei suoi diritti verso il garantito) per far valere la garanzia fideiussoria, a tutto svantaggio del garante.
Gli artt. 2 e 8, invece, prevedendo la permanenza dell’obbligazione fideiussoria a fronte delle vicende estintive e delle cause di invalidità che possono riguardare il pagamento del debitore o la stessa obbligazione principale garantita, rispettivamente, impegnano il fideiussore a tenere indenne la banca da vicende successive all’avvenuto adempimento, anche quando egli abbia confidato nell’estinzione della garanzia a seguito del pagamento del debitore e abbia conseguentemente trascurato di tutelare le proprie ragioni di regresso nei confronti di quest’ultimo (art. 2) e inducono la banca, in sede di concessione del credito, a dedicare una minore attenzione alla validità o all’efficacia del rapporto instaurato con il debitore principale, confidando sulla permanenza dell’obbligazione di garanzia in capo al fideiussore omnibus (art. 8).
Gli arresti giurisprudenziali in punto di fideiussione conforme allo schema ABI.
Secondo una parte della giurisprudenza, premesso che le clausole sopra richiamate (artt. 2, 6 e 8 dello schema ABI) sono lesive della concorrenza, allora l’intesa, ovvero l’accordo “a monte” tra gli istituti di credito di cui dette clausole sono espressione e manifestazione, è nulla. E poiché, ai sensi dell’art. 2, comma 3, della Legge n. 287/1990 l’intesa è nulla “ad ogni effetto”, devono ritenersi conseguentemente nulli i negozi fideiussori “a valle” stipulati in conformità dell’intesa, dalla cui nullità vengono travolti.
In altre parole, la fideiussione è nulla non in quanto recepisce clausole (di per sé) nulle, bensì in quanto è colpita da nullità la pratica concorrenziale illecita “a monte” che si manifesta e prende forma con il negozio “a valle”, che risulta colpito da nullità “a cascata” (a tal fine risultando irrilevante ogni valutazione circa l’essenzialità delle predette clausole nella stipulazione del contratto “a valle”)[2].
Secondo altra giurisprudenza, premessa la necessità di una valutazione alla stregua dell’art. 1419 cod. civ. circa l’essenzialità delle clausole inficiate da nullità per accertare se, senza le stesse, le parti avrebbero comunque concluso il contratto, si osserva come le clausole di cui trattasi, laddove proposte come condizioni generali di contratto contenute in formulari predisposti dalle banche per la generalità dei contraenti, sanciscono una tutela rafforzata della banca creditrice avverso i rischi da inesigibilità delle obbligazioni principali e accessorie in deroga a quanto previsto dal codice civile, rappresentando elementi essenziali nell’economia del negozio, di efficacia sostanziale e temporale della garanzia fideiussoria, per cui le parti (e, segnatamente, la banca) non avrebbero stipulato il negozio senza tali clausole[3].
Per un’altra parte della giurisprudenza che non aderisce alla tesi della nullità integrale dei negozi fideiussori, devono comunque ritenersi incontestabilmente affette da nullità quanto meno le clausole dei singoli contatti riproduttive degli artt. 2, 6 e 8 dello schema ABI di fideiussione omnibus, con conseguente loro caducazione. Ne deriva comunque, in taluni casi, la liberazione del fideiussore dall’obbligazione di garanzia, come nel caso in cui il contratto di fideiussione contenga una clausola corrispondente all’art. 6 dello schema ABI: la deroga all’art. 1957 cod. civ. è invalida ed inefficace, per cui la banca creditrice decade dal diritto di agire nei confronti del fideiussore, laddove non abbia coltivato le proprie istanze nei confronti del debitore principale entro sei mesi dalla scadenza dell’obbligazione principale[4].
Ciò premesso, è stato sostenuto da alcuni giudici di merito e da una parte della giurisprudenza di legittimità che, pur in presenza di clausole riproduttive degli artt. 2, 6 e 8 dello schema ABI nel singolo contratto di fideiussione azionato dalla banca creditrice, il fideiussore, al fine di ottenere un provvedimento favorevole che invalidi la fideiussione prestata, è tenuto a fornire la prova sia dell’intesa asseritamente illecita, sia del danno subito[5].
In senso contrario al succitato orientamento, con il principio di diritto enunciato in epigrafe, il Tribunale di Vicenza ha ravvisato una presunzione di condotta anticoncorrenziale da parte dell’istituto di credito nella mera coincidenza tra alcune clausole del contratto di fideiussione con quelle censurate con il provvedimento della Banca d’Italia del 2005.
L’ordinanza ha recepito sul punto la giurisprudenza della Suprema Corte secondo la quale, con riferimento all’istruttoria sfociata nel provvedimento della Banca d’Italia del 2005, i fatti accertati e le prove acquisite nel corso del procedimento amministrativo non sono più controvertibili, né utilizzabili a fini e con senso diverso da quello attribuito nel provvedimento stesso; infatti, “benché l’accertamento stesso abbia avuto luogo in un procedimento svoltosi tra le imprese e l’autorità competente, deve ritenersi che la circostanza che il singolo utente o consumatore sia beneficiario della normativa in tema di concorrenza (…) comporta pure, al fine di attribuire effettività alla tutela dei primi ed un senso alla stessa istituzione dell’Autorità Garante, la piena utilizzabilità da parte loro, una volta accertate condotte di violazione della normativa di settore posta anche a loro tutela, degli accertamenti conseguiti nel procedimento di cui pure non sono stati formalmente parte; in tal senso, il ruolo di prova privilegiata degli atti del procedimento pubblicistico impedisce che possano rimettersi in discussione proprio i fatti costitutivi dell’affermazione di sussistenza della violazione della normativa in tema di concorrenza, se non altro in base allo stesso materiale probatorio od alle stesse argomentazioni già disattesi in quella sede (…). Una conclusione in tal senso poggia, del resto, sull’assioma per cui il contratto finale tra imprenditore e consumatore costituisce il compimento stesso dell’intesa anticompetitiva tra imprenditori, la sua realizzazione finale, il suo senso pregnante (…)”.
Del resto, “il principio di effettività e di unitarietà dell’ordinamento non consente di ritenere irrilevante il provvedimento amministrativo nel giudizio civile, considerato anche che le due tutele sono previste nell’ambito dello stesso testo normativo e nell’ambito di un’unitaria finalità: tanto più in considerazione dell’evidente asimmetria informativa tra l’impresa partecipe dell’intesa anticoncorrenziale ed il singolo consumatore, che si trova, salvo casi eccezionali da considerare di scuola, nell’impossibilità di fornire la prova tanto dell’intesa anticoncorrenziale quanto del conseguente danno patito e del relativo nesso di causalità”[6].
Pertanto, può sostenersi che il provvedimento della Banca d’Italia del 2005 costituisca già di per sé prova o, quanto meno, una presunzione circa l’esistenza di un’intesa restrittiva della concorrenza “a monte” che si riverbera sul (e invalida il) negozio fideiussorio “a valle”.
Tale prova deve ritenersi utilizzabile dal singolo fideiussore (utente o consumatore) per far valere la nullità della fideiussione azionata dalla banca creditrice; diversamente, si verificherebbe la situazione paradossale tale per cui il fideiussore si vedrebbe costretto a dover ripetere l’istruttoria volta ad accertare l’intesa anticoncorrenziale, da un lato senza tuttavia disporre dei poteri in materia dell’AGCM e della Banca d’Italia; dall’altro lato, vanificando la portata applicativa della Legge n. 287/1990, laddove dispone la “nullità ad ogni effetto” (e, quindi, con efficacia “a cascata”) dell’intesa restrittiva “a monte”, quale quella oggetto del provvedimento della Banca d’Italia.
[1] Art. 2, co. 2, Legge n. 287/1990: “Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, anche attraverso attività consistenti nel: a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali (…)”.
[2] Cfr., ex multis, Tribunale di Salerno, Sent. del 05/02/2020.
[3] Cfr., ex multis, Tribunale di Belluno, Sent. del 31/01/2019.
[4] Cfr., ex multis, Tribunale di Padova, Sent. del 29/01/2019; tale orientamento viene espresso anche dal Tribunale di Vicenza con la succitata ordinanza del 17/09/2020.
[5] Cfr., ex multis, Corte di Cassazione, Sent. n. 30818 del 28/11/2018; Tribunale di Vicenza, Sent. del 20/02/2019 e del 04/10/2019.
[6] Cfr., ex multis, Corte di Cassazione, Sent. n. 13846 del 22/05/2019.
Avv. Eleonora Facchinello e Avv. Francesco Fontana