Avv. Nicola Cera
A seguito della stipula di un contratto di conto corrente bancario, si presume con presunzione iuris tantum che titolari dell’intera provvista siano, in parti uguali, tutti i cointestatari del conto (non escluso il contitolare defunto).
A ben vedere, infatti, il legislatore stabilisce che “Nel caso in cui il conto sia intestato a più persone, con facoltà per le medesime di compiere operazioni anche separatamente, gli intestatari sono considerati creditori o debitori in solido dei saldi del conto” (art. 1854 c.c.).
Inoltre, l’art. 1298 c.c. dispone che nei rapporti interni tra i cointestatari “…l’obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori o tra i diversi creditori, salvo che sia stata contratta nell’interesse esclusivo di alcuno di essi. Le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente.”.
Ciò posto, a titolo esemplificativo, nell’ipotesi di conto bancario intestato a due soggetti, si presume che le somme spettino per 1/2 a ciascuno di essi.
Dunque, il cointestatario di un conto bancario a firma disgiunta, nonostante sia abilitato ad operare autonomamente su tutte le somme del conto medesimo, non potrà beneficiare delle stesse in misura eccedente la propria quota e tale limitazione sarà operante con riferimento all’intero svolgimento del rapporto bancario (Cass. civ. sez. II, sentenza 2 dicembre 2013, n. 26991).
Occorre osservare, tuttavia, che nonostante il conto corrente bancario possa essere intestato a più contitolari presumendosi che il danaro appartenga ai medesimi in parti uguali, non sempre la titolarità delle somme depositate si divide in tal guisa.
La soprindicata presunzione di titolarità in parti uguali determina infatti soltanto un’inversione dell’onere probatorio a carico di chi intenda dimostrare una situazione difforme da quella derivante dalla cointestazione del conto corrente (cfr. Cass. sent. n. 28839 del 2008 e Cass. sent. n. 4496 del 2010).
Ben potrebbe quindi capitare che, anche in presenza di una clausola di firma disgiunta in ordine agli atti dispositivi, l’intera provvista del conto appartenga esclusivamente ad uno solo dei cointestatari.
Per tali ragioni si afferma che, alla morte di uno di essi (ma anche in vita, in caso di contrasto con il cointestatario del conto) si rende opportuno individuare in che percentuale le somme appartenevano al cointestatario.
In linea con quanto osservato, infatti, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale di legittimità, la soprindicata presunzione di contitolarità iuris tantum derivante dall’applicazione del combinato disposto degli artt. 1854 e 1298 c.c., può essere superata in giudizio mediante la costruzione di prova contraria, fondata anche su presunzioni semplici.
In altri termini, in assenza di espresse pattuizioni contrattuali in merito, uno dei cointestatari (o gli eredi del contitolare defunto) potrebbe agire in giudizio per rivendicare le somme presenti sul conto corrente cointestato, dimostrando che il saldo attivo del rapporto bancario sarebbe costituito esclusivamente, o in maggior parte, da versamenti di somme non riferibili agli altri contitolari.
L’azione in tal caso intentata sarà l’azione di rinvendicazione (art. 948 c.c.), caratterizzata dal preventivo accertamento da parte del giudice del diritto di proprietà sulle somme richieste e dalla consequenziale restituzione delle stesse. La prova delle circostanze descritte potrà essere fornita dal contitolare interessato (o dagli eredi del contitolare deceduto) mediante la pedissequa ricostruzione di tutte le attività bancarie inerenti al conto medesimo, offrendo in produzione una comprovante documentazione bancaria relativa alle attività inerenti al conto cointestato (cfr. Cass. sent. n. 3241 del 1989, Cass. sent. n. 8718 del 1994 e Cass. sent. n. 4066 del 2009).
E’ opportuno segnalare che l’azione di rivendicazione non si prescrive, salvi gli effetti dell’acquisto della proprietà da parte di altri per usucapione (10 anni, o 20 in caso di malafede); tuttavia, il momento iniziale dal quale decorre detto termine non è quello della cointestazione del conto corrente, bensì quello della concreta appropriazione delle somme; infatti, in tema di compossesso il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all’esercizio del possesso “ad usucapionem”, e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell’altro compossessore, risultando per converso necessaria, ai fini dell’usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla “res” da parte dell’interessato attraverso un’attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione del bene (Cass. Civ. n. 17462/2009).
E’ altresì opportuno evidenziare che la possibilità che costituisca donazione indiretta la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari, è legata all’apprezzamento dell’esistenza dell’animus donandi, consistente nell’accertamento che, al momento della cointestazione, il proprietario del denaro non avesse altro scopo che quello di liberalità (Cass. Civ. n. 26991/2013).
Avv. Nicola Cera