L’art. 838-quinquies c.p.c. (già art. 37 D.Lgs. 5/2003) prevede che gli atti costitutivi delle società a responsabilità limitata e delle società di persone possano anche contenere clausole con le quali si deferiscono ad uno o più terzi i contrasti tra coloro che hanno il potere di amministrazione in ordine alle decisioni da adottare nella gestione della società.
La norma si applica testualmente alle s.r.l. ed alle società di persone, tra cui si ritiene di includere anche le società semplici (non risultando alcuna previsione che delimiti lo strumento alle società commerciali). Sembra invece potersi escludere il perimetro di applicazione alle decisioni degli organi gestori di s.r.l. e di società di persone, se e nella misura in cui il loro contrasto afferisca all’esercizio del diritto di voto della società da loro amministrata in relazione ad autorizzazioni o pareri vincolanti richiesti dagli organi gestori di società per azioni controllate dalle prime. In tal caso, l’utilizzo in concreto dello strumento risolutivo potrebbe porsi in violazione dell’art. 1344 c.c.
In disparte la collocazione dell’art. 838-quinquies c.p.c. all’interno del codice di procedura civile anziché nel codice civile, la portata sostanziale appare significativa, giacché consente l’adozione di strumenti aventi rango statutario (con conseguente efficacia reale) di risoluzione dei contrasti gestori; e ciò diversamente da quanto avviene per i patti parasociali (art. 2341-bis e ter c.c. ed art. 122 TUF), che soggiacciono (salvo alcuni specifici casi) alle ben note limitazioni di opponibilità alla società in oggetto ed allo stesso organo gestorio in seno al quale il contrasto emerge.
Se non l’oggetto, l’effetto della disposizione muove nella direzione di snellire i meccanismi gestori (diretti o indiretti) di casting vote che affidano in concreto alle decisioni di taluni soci di minoranza o professionisti di fiducia (a tal fine insediati nei consigli di amministrazione delle società) i contrasti sorti in senso all’organo gestorio; con tale strumento risolutivo si può demandare ad un terzo (favorevolmente estraneo alla compagine sociale ed, auspicabilmente, in rapporto di imparzialità ed indipendenza) la risoluzione di un contrasto gestorio.
La decisione del terzo (o del collegio) è vincolante, come si desume dall’avverbio “anche” contenuto nel comma terzo dell’art. 838-quinquies c.p.c.; la vincolatività si traduce nella responsabilità dell’amministratore che non vi si conformi, non ripercuotendosi invece sulla validità dell’atto eventualmente compiuto in difformità.
Lo strumento è “naturalmente” azionabile da coloro che hanno il potere di amministrare, tanto più alla luce della pervasiva disciplina contenuta nell’art. 2086 c.c. (e, per quanto qui interessa, negli artt. 2257 primo comma, 2380 bis primo comma ultimo periodo, 2475 primo comma c.c.).
L’oggetto del contrasto deferibile ex art. 838-quinquies c.p.c. si riferisce alla “gestione” della società, con tale lemma dovendosi includere de jure condito tutti gli aspetti gestori ed organizzativi e non solamente gli aspetti residuali legati all’amministrazione od operatività della società. In altri termini, il contrasto può afferire sia alle decisioni relative a singoli atti dispositivi del patrimonio sociale, sia al loro compimento in nome e per conto della società, ma può altresì attenere alla definizione degli adeguati assetti ex art. 2086 c.c. ed, altresì, all’impronta strettamente imprenditoriale che si intende dare al capitale di rischio investito nella società, così pure, ispirandosi alla ricerca di un equilibrio economico secondo un criterio di BJR.
Il terzo (o il collegio) cui si riferisce la norma in parola non è de plano un arbitratore. Non deve trarre in inganno l’ultimo comma dell’art. 838-quinquies c.p.c. secondo cui “la decisione resa ai sensi del presente articolo è impugnabile a norma dell’articolo 1349, secondo comma, del codice civile”. La tecnica legislativa per applicazione (spesso foriera di equivoci) è limitata ai presupposti per l’impugnazione e non all’intero istituto disciplinato dall’art. 1349 c.c. (dal momento che, altrimenti, il legislatore avrebbe dovuto farne rinvio o richiamo integrale).
Diversamente argomentando, si dovrebbe ritenere che la determinazione (circa una scelta gestoria della società) potrebbe essere rimessa al mero arbitrio del terzo (o del collegio); il che appare incoerente con la funzione dell’istituto. A tale approdo si perviene, altresì, considerando la vincolatività ex lege della decisione del terzo, da un lato, e la permanenza della responsabilità in capo agli amministratori per l’atto gestorio compiuto in conformità a detta decisione, dall’altro.
L’inquadramento del terzo “risolutore del contrasto” dipende dal regolamento statutario – di volta in volta – adottato dai soci, nei limiti delle norme inderogabili di legge, fermo che (almeno in termini astratti e generali) tale figura si può discostare (a) dalla perizia contrattuale perché (seppure il terzo sia ragionevolmente scelto per la sua particolare competenza tecnica), la determinazione richiesta non si concreta in una mera dichiarazione qualificata di scienza ed, altresì, (b) dall’arbitraggio perché nella formazione della volontà dell’ente (la società) non si è in presenza di un negozio incompleto in uno dei suoi elementi, in relazione al quale le parti (ossia “coloro che hanno il potere di amministrazione”) demandano ad un terzo la determinazione della prestazione e neppure a lui deferiscono una funzione di ricerca in via preventiva dell’equilibrio mercantile tra prestazioni contrapposte e di perequazione degli interessi economici in gioco.
Si tratta di un vaso da riempire, una fattispecie nominata ma senza una completa disciplina tipica, con una vocazione (non imposta, ma suggerita) a tratti assimilabile ad una funzione di volontaria giurisdizione, come induce a ritenere anche il terzo comma del citato articolo.
Tale comma consente, invero, che gli atti costitutivi (di s.r.l. e di società di persone) possano, altresì, prevedere che il soggetto chiamato a dirimere i contrasti possa dare indicazioni vincolanti anche sulle questioni collegate con quelle espressamente deferitegli.
Tale disposizione chiarisce, se ce ne fosse bisogno, l’estraneità al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, confermando la natura sostanziale e non processuale dello strumento di risoluzione del contrasto ed, inoltre, consentendo all’interprete di delineare il possibile perimetro della decisione, all’interno di un collegamento – per oggetto o per effetto – rispetto alla questione su cui verte il contrasto.
E così, il terzo (o il collegio) affidatario di dirimere il contrasto può dare indicazioni vincolanti anche “extra o ultra petitum” ed, inoltre, non sarà tenuto a limitarsi ad una scelta di campo tra due (o più) proposte gestorie tra loro opposte o divergenti, ma potrà, ad esempio, anche rigettarle entrambe o declinarle con prescrizioni, con l’unico limite di dovere assumere una determinazione in buona fede.
Francesco Fontana