Dr.ssa Erika Bonollo
L’art. 115 comma 1 c.p.c. enuncia il principio dispositivo in senso processuale, ovvero il principio della disponibilità di proporre le prove, consacrante il monopolio delle parti nell’introduzione in giudizio del materiale istruttorio necessario per la decisione della causa.
Infatti, il giudice deve porre a fondamento della propria decisione le “prove proposte dalle parti, dal pubblico ministero” e, in aggiunta, i “fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”, avendo altresì il potere-dovere di valersi, “senza bisogno di prova”, delle “nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”.
E’ stato con legge di riforma del processo civile (L. 18 giugno 2009 n. 69) che all’art. 115 c.p.c. è stata codificata la declinazione giurisprudenziale del principio di non contestazione, risalente all’obiter dictum di Cass. S.U. 23/01/2002 n. 761, secondo cui devono ritenersi pacifici non solo i fatti esplicitamente o implicitamente ammessi, ma anche quelli su cui l’avversario taccia.
La ratio ispiratrice della nuova disposizione risiede in una tecnica di semplificazione del procedimento attraverso l’espunzione dal thema probandum dei fatti allegati dalle parti che non risultino specificamente contestati ex adverso.
Il principio di non contestazione aveva già da diversi anni trovato cittadinanza nell’ordinamento in virtù di un’interpretazione sistematica e consolidata da parte della Suprema Corte. In questa peculiare prospettiva, l’esistenza di un generale onere di contestazione tempestiva veniva desunto non solo dagli artt. 167 comma 1 e 416 comma 3 c.p.c., ma dall’intero sistema processuale, informato ai principi e alle garanzie del giusto processo e del leale contraddittorio.
Va osservato che l’attuale versione della disposizione in esame – diversamente dall’originario testo del progetto di riforma che si limitava ad escludere la rilevanza della contestazione generica – contempla un onere attivo di contestazione specifica: il silenzio e la contestazione generica, quanto alla capacità di rendere il fatto non bisognoso di prova, si equivalgono.
La giurisprudenza di legittimità successiva alla codificazione del principio di non contestazione ha contribuito a definirne la portata applicativa anche con riferimento alla distinzione tra fatti principali – i quali, alla stregua della fattispecie legale astratta, assurgono a rilievo di fatti costitutivi, impeditivi, modificativi o estintivi del diritto fatto valere – e fatti secondari, dalla cui conoscenza possa desumersi il fatto principale.
Sul punto, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno recepito la miglior dottrina (vd. P. Pisani ed F. Carnelutti) la quale, facendo leva sul dato letterale, sottolineava come l’assenza di alcuna specificazione al sostantivo “fatti”, di cui all’art. 115 del codice di rito, escludesse una diversa operatività del meccanismo di non contestazione tra fatti principali ovvero secondari (Cass. S.U. 29/05/2014, n. 12065). Ne deriva, pertanto, che la non contestazione opera allo stesso modo tanto per i fatti principali che per quelli secondari.
Il grado di specificità della contestazione, poi, deve essere valutato in concreto in relazione alle singole controversie, potendo variare a seconda del livello di conoscenza del fatto da parte del soggetto nei cui confronti è allegato e a seconda della precisione del fatto allegato dalla controparte (Tribunale Milano Sez. VII Sent., 01/03/2019). Nel procedimento civile, il principio di non contestazione in tanto assume rilievo, in quanto l’allegazione del fatto, con tutti gli elementi, costituenti il suo contenuto variabile e complesso, risulti connotata da precisione e specificità, in assenza delle quali il fatto resta estraneo al potere di contestazione, atteso il collegamento con quello di allegazione, di cui costituisce il riflesso processuale (cfr. Corte d’Appello Lecce Taranto, 27/10/2016).
Tale impostazione produce un triplice effetto: per chi doveva contestare (e non l’ha fatto), per il deducente (colui che allega il fatto) e per il giudice.
Per il contestatore comporta che i fatti allegati dalla parte avversaria, qualora non siano contestati, debbano essere considerati incontroversi e non richiedenti una specifica dimostrazione (Cass. civ., sez. II, 20/11/2008, n. 27596).
Per il deducente comporta l’esonero dall’onere della prova.
Per il giudice produce effetti vincolanti, in quanto egli “dovrà astenersi da qualsiasi controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale e dovrà, perciò, ritenerlo sussistente in quanto l’atteggiamento difensivo delle parti consente di espungere il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti” (Cass. civ., sez. III 5/03/2009, n. 5356).
Va tuttavia ricordato che la non contestazione consente di espungere il fatto non contestato da quelli per cui occorre introdurre le prove, ma non consente di riconoscere come sicuramente accaduto quel fatto.
In altri termini, l’art. 115 c.p.c. non reca alcuna finzione di dimostrazione del fatto non specificatamente contestato ma si limita a stabilire una relevatio ab onere probandi a favore della parte che lo ha allegato. In tale prospettiva, la non contestazione non è sussumibile nell’ambito di una prova legale (ancorchè iuris tantum) e, dunque, vi è la possibilità che il fatto non contestato venga superato da prove di senso contrario che dovessero emergere nel corso dell’istruttoria (cfr. Cass. civ. Sez. III Sent., 13/03/2012, n. 3951 (rv. 622080), di talché, ove verificatasi tale ipotesi, nulla impedisce al giudice di acquisirne comunque la prova.
Ciò che appare fondamentale aggiungere, benché possa sembra ovvio e scontato, è che l’onere di specifica contestazione opera se e nella misura in cui l’avversario conosca o possa conoscere le circostanze su cui verte l’allegazione dell’altra parte, mentre qualora non rientrino nella sfera di conoscibilità determinati fatti (pur) dedotti in modo analitico e specifico, con riguardo ad essi non vi sarà alcun onere di contestazione (cfr., a contrariis, Tribunale Monza Sent., 05/01/2011).
Con un esempio suggestivo, si può dunque affermare che se l’attore, tra i fatti costitutivi della propria domanda ex art. 2697 c.c., alleghi – essendovi tenuto – che vi sia acqua su Plutone (circostanza ignota), il convenuto non dovrà essere tenuto a contestare tale circostanza (da lui non conosciuta e non conoscibile), ma (semmai) sarà il giudice a dover disporre, sussistendone i presupposti e le condizioni, una consulenza tecnica d’ufficio a carattere percipiente ed accertativo, non valendo certo la “non contestazione” a far ritener provata una circostanza ignota.
Per sintetizzare e distinguere i piani in cui operano l’art. 115 c.p.c. e l’art. 2697 c.c. è sufficiente osservare che mentre la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., configurabile soltanto nell’ipotesi in il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma, integra motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la censura che investe la valutazione (attività regolata, invece, dagli artt. 115 e 116 c.p.c.) può essere fatta valere ai sensi dell’art. 360, primo comma, n.5, c.p.c. (Cass. civ. Sez. III Sent., 17/06/2013, n. 15107 (rv. 626907)).
In altre parole, e senza pretesa di esaustività, l’art. 2697 c.c. disciplina chi abbia l’onere di provare i fatti, mentre l’art. 115 c.p.c. introduce uno strumento rimesso al prudente apprezzamento del giudice (e non sindacabile nel merito, ove sorretto da logica e coerente motivazione) per valutare, ai fini della decisione, la sussistenza di un fatto allegato dalle parti senza e prima di assumere ulteriori prove.
Da ultimo, va ricordato che il principio di contestazione non opera per il processo in contumacia.
Come affermato dalla Corte Costituzionale, se il convenuto non si costituisce i fatti affermati dall’attore non si reputano “non contestati”, poiché detta regola sarebbe “in contrasto con la tradizione del diritto processuale italiano, nel quale alla mancata o tardiva costituzione mai è stato attribuito il valore di confessione implicita” (C. Cost., sent. 12/10/2007, n. 340).
La legge n. 69/2009, infatti, modificando l’art. 115 c.p.c., ha limitato il fascio applicativo del principio di non contestazione alla sola “parte costituita”, che tuttavia così riceve (paradossalmente) un trattamento deteriore rispetto al contumace, ravvisandosi nell’atteggiamento di quest’ultimo una ficta litiscontestatio anziché una ficta confessio.
L’intento moralizzatore che sorregge la riforma del processo civile del 2009 – e che ispira senz’altro, accanto all’esigenza di semplificazione e accelerazione del processo ordinario, la scelta di “sanzionare” la carenza difensiva della parte costituita – si innesta così in un sistema che non conosce disvalore per chi rimane totalmente inerte e indifferente all’azione giurisdizionale intrapresa, evidenziando un’aporia che (con fatica) si riconcilia in via interpretativa solo richiamando il diverso piano di applicazione dell’art. 115 c.p.c. rispetto all’art. 2697 c.c.
Dr.ssa Erika Bonollo