Avv. Sara Cattarinussi
Negli ultimi anni è aumentata la tutela a fronte del licenziamento discriminatorio, ovvero quel licenziamento determinato “da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacali” da ritenersi nullo, “indipendentemente dalla motivazione adottata” (def. art. 4 l. 15/07/1966, n. 604).
Tale tutela trova fondamento nella nostra Costituzione, il cui articolo 3 prevede notoriamente che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Anche in ambito europeo, con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la ratifica ad opera del Trattato di Lisbona nel 2009, il principio di eguaglianza si sostanzia nel diritto a non essere discriminati sulla base delle caratteristiche soggettive costitutive dell’identità della persona e nel diritto a preservare la propria diversità.
Sulla base di tali presupposti normativi si sono sviluppate, a livello nazionale, leggi a tutela del licenziamento discriminatorio, considerato nullo (l’art. 18 della l. 300/1970, così come l’art. 2 del più recente decreto legislativo 23/2015, sanzionano il licenziamento discriminatorio con la reintegra del lavoratore, oltre alla previsione dell’indennità risarcitoria).
A titolo esemplificativo, si consideri la tutela della maternità disposta dall’art. 54 del d.lgs. 26/03/2001, n. 151, che prevede il divieto di licenziare le lavoratrici dall’inizio del periodo della gravidanza fino all’anno di età del bambino, o ancora gli articoli 15 e 16 dello Statuto dei Lavoratori, riguardanti atti di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali, nonché il divieto di concessione di trattamenti economici differenti sulla base delle predette discriminazioni.
Interessanti, per le peculiarità che si rinvengono, sono gli interventi normativi di cui ai D.Lgs. 215 e 216 del 9 luglio 2003.
In particolare, gli articoli 2 dei decreti legislativi sopra citati disciplinano la nozione di discriminazione, distinguendo tra:
“a) discriminazione diretta quando, per la razza o l’origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in situazione analoga;
b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone” (art. 2 d. lgs. 215/2003).
“a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone” (art. 2 d. lgs. 216/2003).
Quanto alla giurisprudenza, la stessa ha identificato il comportamento discriminatorio con una condotta oggettiva, conseguente alla violazione di norme di diritto interno ed europeo e consistente nel trattamento deteriore adottato dal datore di lavoro nei confronti di un lavoratore appartenente a determinate categorie tipizzate (tra le quali genere, orientamento sessuale, etnia, religione) (ex multis, Cass. Civ. sent. n. 6575/ 2016).
Accanto a tale discriminazione diretta (o tipizzata) si è delineata un’altra forma non tipizzata o indiretta, sicuramente più difficile da identificare e spesso facilmente trascurata a fronte di comportamenti formalmente corretti adottati dal datore di lavoro. Tale ulteriore forma consiste nel porre in essere atti, prassi o comportamenti apparentemente neutri che possano mettere soggetti appartenenti ad una determinata categoria ‘tipizzata’ in una posizione di particolare svantaggio rispetto agli altri.
Per comprendere la differenza tra le due tipologie di discriminazione, si pensi ad un’azienda che, nel procedere a nuove assunzioni, specifichi che non procederà ad assumere persone straniere. In questo caso l’azienda sta adottando un atteggiamento di discriminazione diretta.
Se l’azienda, invece, specifica che procederà con l’assunzione esclusivamente di personale che parli perfettamente la lingua italiana (parametro apparentemente neutro) ci troveremo di fronte ad un caso di discriminazione indiretta, poiché tale richiesta, di per sé non discriminatoria, escluderà dall’assunzione i possibili candidati stranieri, che incontreranno sicuramente maggiori difficoltà nel parlare perfettamente la lingua italiana, mettendoli in una situazione di svantaggio rispetto ai concorrenti italiani.
L’individuazione di tale secondo tipo di discriminazione nell’ambito lavorativo costituisce compito particolarmente delicato per il Giudice, che dovrà analizzare il comportamento del datore di lavoro valutando altresì il contesto nel quale lo stesso viene posto in essere.
A tale distinzione faceva riferimento il Tribunale di Vicenza – Sezione Lavoro in persona del Giudice Dott. Talamo, pronunciandosi nel caso di seguito esaminato con sent. n. 861/2017 pubblicata il 28/12/2017.
La vicenda giudiziaria atteneva al caso di un socio lavoratore che nel maggio 2014 rifiutava di svolgere le mansioni assegnategli dalla Società, svolgendo altra attività dallo stesso scelta in autonomia e presentandosi in orario differente da quello indicato dalla datrice di lavoro.
Il Lavoratore motivava tale unilaterale decisione con l’asserita impossibilità di movimentare colli del peso superiore a 20 kg. La Società, ritenendo tale condotta inammissibile, licenziava il Lavoratore per giusta causa. Nell’impugnare il licenziamento, il Lavoratore accusava la Società di avere posto in essere un licenziamento discriminatorio, basato, oltre che sul rifiuto di movimentare carichi pesanti, sull’opposizione alla movimentazione di alcolici contenuti in detti colli, anche in considerazione della carica di Imam assunta dal Lavoratore, nella comunità musulmana di appartenenza.
Si difendeva la Società evidenziando l’inesistenza di qualsiasi ragione discriminatoria, peraltro dedotta in via sopravvenuta rispetto all’originaria unica giustificazione resa in sede sindacale (eccessivo peso dei colli da movimentare).
Il Giudice distingueva tra la volontà del datore di lavoro di adottare il provvedimento di licenziamento quale conseguenza dell’appartenenza del lavoratore ad una determinata categoria di soggetti (discriminazione diretta) dal licenziamento che ha quale presupposto un differente trattamento da parte del datore di lavoro rispetto a situazioni identiche o, quantomeno, omogenee (discriminazione indiretta).
A riguardo, il Giudice riconosceva che “non emerge in alcun modo che la “società” abbia riservato al ricorrente, imponendogli di lavorare ad un certo orario per lo svolgimento di mansioni comprendenti lo spostamento di bottiglie di alcolici, un trattamento diversificato rispetto ad altri lavoratori – peraltro sempre di fede musulmana – né emerge che al ricorrente sia stato subdolamente, da parte della cooperativa, assegnato un compito che sapeva che il Lavoratore avrebbe rifiutato di assolvere”.
In sostanza, il Giudice escludeva che l’ordine di movimentare casse contenenti alcolici, ordine del tutto legittimo trattandosi di una Società dedita al trasporto merci, fosse stato impartito a tutti i lavoratori senza tenere conto delle possibili difficoltà per un lavoratore di fede musulmana.
Ciò sulla base del fatto che la Società non era mai stata messa al corrente della volontà del Lavoratore di essere adibito a mansioni che escludessero la movimentazione di alcolici. Ad ulteriore prova della buona fede della Società, il fatto che vi fossero molti altri lavoratori di fede musulmana, che mai avevano sollevato contestazioni sulle mansioni affidate.
Ed invero, la discriminazione opera obiettivamente in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro (con conseguente autonomia del licenziamento discriminatorio dal motivo illecito determinante).
Fatte tali precisazioni, il principio di diritto enucleato dalla commentata sentenza si può così riassumere: “come è vero che il licenziamento discriminatorio operi, per così dire, in modo oggettivo e, quindi, a prescindere dalla volontà del datore di lavoro di adottare il provvedimento di licenziamento quale conseguenza dell’appartenenza del lavoratore ad una determinata categoria di soggetti, è anche vero – quantomeno lo è secondo il giudizio di chi oggi deve decidere la controversia – che il licenziamento discriminatorio comunque presuppone un differente trattamento da parte del datore di lavoro rispetto a situazioni identiche o, quantomeno, omogenee”.
E proprio tale ultimo inciso appare estendere e rafforzare (sussistendone le condizioni) la tutela giurisdizionale ben oltre il perimetro dei vari interventi normativi che si sono occupati della materia, introducendo un paradigma, assolutamente condivisibile almeno in astratto, di omogeneità e conformità di trattamento, quali indicatori di sicuro interesse per l’individuazione di situazioni distoniche in predicato di discriminazione.
Sul solco di tali argomentazioni, il provvedimento vicentino veniva confermato dai Giudici della Corte d’Appello di Venezia, i quali a loro volta esploravano in un obiter dictum anche l’ambito di applicazione del licenziamento discriminatorio, estensivamente individuando il bene tutelato nello status (l’appartenenza al sindacato, la religione, il sesso, il genere, lo status di handicap ecc.) che, in quanto tale, è elemento fondante il licenziamento: in tal caso passa in secondo piano e diviene irrilevante l’elemento “intenzionale” dell’autore dell’atto risolutivo del rapporto (in questo senso va intesa la oggettività della situazione protetta, non certo nel senso della intangibilità di una posizione lavorativa in ragione della qualifica della persona appartenente alla categoria “protetta” – Corte d’Appello di Venezia, sent. n. 200/2019 del 02/04/2019, Pres. Dott. Perina).
Nello stesso senso si esprimeva la giurisprudenza a tutela delle diverse categorie protette.
Ex multis, la Cassazione ravvisava una discriminazione indiretta nella richiesta di una società della padronanza delle due lingue, italiana e tedesca, da parte dei lavoratori, ritenendo che “pur facendo salve l’art. 43 le disparità di trattamento in funzione di requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, la più approfondita conoscenza delle lingue indicate non configurava il requisito dell’essenzialità” (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent. n. 7306/2018).
Sul tema si esprimeva anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Riguardo al noto caso del divieto del velo islamico sul luogo di lavoro (facente parte del più generico divieto imposto da una società di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso), la Corte ravvisava una possibile discriminazione indiretta nel caso in cui venisse dimostrato che tale obbligo, apparentemente neutro, comportasse, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o ideologia, a meno che esso fosse oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento, da parte del datore di lavoro, di un’ottica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti, e che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità fossero appropriati e necessari, circostanza, questa, che spetta al giudice del rinvio verificare (Corte di Giustizia Unione Europea, Grande Sezione, 14/3/2017, C-157/15, Pres. Lenaerts).
Anche a livello europeo veniva, dunque, riconosciuta la necessità di raffrontare l’obbligo apparentemente discriminatorio con il contesto lavorativo, ed in particolare con il trattamento riservato agli altri lavoratori da parte del datore di lavoro.
Avv. Sara Cattarinussi