AFPC – Trevisan
Una panoramica sull’intreccio delle norme e dei principi fondamentali in materia e sulla derogabilità del sistema.
Accade non di rado di imbattersi in problematiche di vicinato, riguardanti il rispetto delle cosiddette “distanze legali”, ovverossia delle distanze minime previste dalla legge e/o dai regolamenti locali, tra le costruzioni insistenti su fondi confinanti o tra le nuove costruzioni e i confini di altre proprietà.
L’obiettivo di questo articolo è quello di chiarire l’ambito di applicazione delle discipline codicistiche e regolamentari locali e di offrire alcuni spunti di riflessione sulla possibilità di derogarvi convenzionalmente.
Il quadro normativo.
La norma fondamentale è dettata dall’art. 873 c.c.: «Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore».
Va poi richiamato l’art. 9 del D.M. 1444/1968, che prescrive per le nuove prescrizioni la distanza minima assoluta di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti; norma che, in alcuni casi, la giurisprudenza ha ritenuto applicabile anche a pareti di edifici antistanti prive di finestre (T.A.R. Napoli, sez. VIII, 23/08/2016, n.4092).
Il quadro va completato con le prescrizioni locali dei vari strumenti normativi e urbanistici (piani regolatori e regolamenti edilizi comunali) che regolano l’attività edificatoria e le modalità costruttive degli edifici, al fine di garantire il rispetto delle normative tecnico-estetiche, igienico-sanitarie, di sicurezza e vivibilità degli immobili e delle pertinenze degli stessi; questi strumenti possono stabilire distanze maggiori (e non inferiori) rispetto a quelle dettate dall’art. 873 c.c. e in effetti, nella quasi totalità dei casi, stabiliscono anche distanze minime tra le nuove costruzioni e i confini di altre proprietà.
L’interpretazione estensiva della nozione di “costruzione”.
Per la giurisprudenza, è “costruzione” (rilevante ai fini dell’applicabilità delle normative in materia di distanze legali) qualsiasi opera non completamente interrata, avente i caratteri della stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, indipendentemente dalle caratteristiche di sviluppo aereo e di massa della stessa, dal materiale impiegato per la sua realizzazione e dalla sua destinazione (cfr., tra le altre, Cass. 15972/2011; 7706/2016; 5145/2019) e che sia tale da poter creare quelle intercapedini dannose e insalubri che la legge intende evitare (Cass. 15282/2005; Cass. 23189/2012). Manufatti quali sporti, terrazze, scale esterne e in generale i corpi avanzati (incluse tettoie, portici e, finanche, pompeiane se dotate delle caratteristiche sopra elencate), vanno considerati parte della costruzione, e sono dunque computabili ai fini del calcolo delle distanze, salvo che non abbiano funzione meramente decorativa e ornamentale (cfr. Cass. 26846/2018; Cass. 23845/2018).
La verifica in concreto di tali caratteristiche spetta, caso per caso, al giudice di merito.
La ratio, la natura e la portata applicativa delle normative di settore.
La ratio legis delle disposizioni in materia di distanze è storicamente individuata nell’esigenza di garantire la tutela dell’interesse pubblico all’igiene, al decoro e alla sicurezza degli edifici adibiti ad uso abitativo, evitando la formazione di intercapedini anguste, insalubri o pericolose tra costruzioni.
Ciò vale tanto per la fondamentale norma di cui all’art. 873 c.c., quanto per le altre norme regolamentari sopra richiamate, le quali costituiscono integrazione e specificazione della disciplina codicistica, dalla quale mutuano la ratio, ampliandola alla tutela di altre esigenze ed interessi tecnico-urbanistici di natura pubblicistica, quali la pianificazione del territorio, la regolamentazione dell’attività edilizia e di trasformazione del territorio e la realizzazione di modelli urbanistici prefigurati (arg. ex Cass. 23973/2017; Cass. 23845/2018 e Cass. 11320/2018).
Ne deriva un’implicita e sostanziale identificazione tra le distanze previste dal codice civile e quelle (anche con i confini) individuate dagli strumenti urbanistici locali; conseguentemente, la nozione di “costruzione” sopra delineata è riferibilità ad entrambe, senza distinzione.
Tuttavia, mentre l’art 873 c.c. è unanimemente riconosciuto come norma di natura e carattere privatistici, derogabile dalla volontà negoziale dei privati, il divieto stabilito all’art. 9 del D.M. 1444/1968 è norma di portata generale ed astratta, prevista a tutela di interessi squisitamente pubblicistici e, pertanto, inderogabile (Cass. 14953/2011), e tale da escludere ogni discrezionalità valutativa del giudice circa l’esistenza in concreto di intercapedini e/o di pregiudizi alla salubrità degli immobili (cfr. TAR Campania, sez. II, 7 dicembre 2017, n. 5785; Cons. Stato, sez. VI, 18 dicembre 2012, n. 6489).
Lo stesso dicasi, in sostanza, per le norme dettate dai regolamenti e dagli strumenti urbanistici locali; norme di natura evidentemente pubblicistica, da cui discende l’inderogabilità delle stesse da parte dei privati (cfr., da ultimo, Cass. 26270/2018 e Cass. 1731/2020), oltre che l’esclusione di qualsiasi discrezionalità di valutazione e accertamento del giudice nell’applicazione delle norme in materia (Cass. 8691/2017). Ragion per cui il giudice sarà tenuto ad attivare le tutele e le sanzioni previste per la violazione delle distanze regolamentari, senza alcun margine di valutazione e accertamento dell’effettiva sussistenza di intercapedini pericolose o dannose (Cass. 213/2006).
La derogabilità delle distanze legali.
Si è detto della derogabilità della disciplina generale privatistica dettata dall’art. 873 c.c.: in assenza di più stringenti disposizioni regolamentari locali, sarà senz’altro possibile una deroga negoziale tra privati alla distanza minima di tre metri tra costruzioni insistenti su fondi finitimi.
Di contro, è pacifica l’inderogabilità assoluta della disposizione di cui all’art. 9 D.M. 1444/1968, non solo da parte dei privati, ma anche da parte dei regolamenti locali, con conseguente nullità ed inefficacia di negozi privati di eventuali disposizioni regolamentari non conformi, in quanto contra legem (cfr. T.A.R., Genova, sez. I, 26/03/2010, n. 1235).
Infine, anche le disposizioni dettate dai regolamenti e dagli strumenti urbanistici locali sono inderogabili, ma con un’importante eccezione. Molto spesso, infatti, sono gli stessi regolamenti locali a prevedere la possibilità per i proprietari confinanti di stabilire distanze diverse da quelle regolamentari, con convenzione o scrittura privata registrata e trascritta. In tal caso, proprio perché è la stessa fonte normativa a prevederla, la deroga non può che considerarsi legittima, purché non contrastante con la norma pubblicistica.
Al riguardo, rimane da evidenziare che, al fine di mantenere una costruzione a distanza inferiore a quella prescritta dalla legge o dai regolamenti, non basta una mera dichiarazione di assenso o una scrittura unilaterale del proprietario del fondo vicino, autorizzativa la corrispondente servitù, ma si rende necessaria la stipula di un vero e proprio contratto costitutivo di servitù prediale, ex art. 1058 c.c. (Cass. 14711/2019), nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, da registrare presso il competente ufficio dell’Agenzia delle Entrate e da trascrivere nei registri immobiliari della competente Conservatoria, ai fini di rendere il diritto opponibile ai terzi.
Dott. Jacopo Trevisan