Ai sensi dell’art. 2118 c.c. ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando preavviso nel termine e nei modi stabiliti [dalle norme corporative] dagli usi o secondo equità. Pertanto, salvo l’ipotesi di recesso sorretto da giusta causa ex art. 2119 c.c., l’obbligo di preavviso ricade su entrambe le parti contrattuali e ha la funzione di evitare alla parte che subisce il recesso le conseguenze pregiudizievoli determinate dall’immediata cessazione del rapporto di lavoro.
La durata del preavviso è determinata dal contratto collettivo applicabile a cui, ai sensi dell’art. 2077 c.c., le disposizioni dei contratti individuali di lavoro devono uniformarsi.
Ciò posto, in determinate ipotesi, le parti possono stabilire un termine di preavviso maggiore o minore rispetto a quello dettato dal CCNL.
La riduzione del preavviso
La clausola che riduce il preavviso per il licenziamento costituisce una violazione dell’art. 2077 c.c., in quanto finalizzata a modificare in pejus la contrattazione collettiva; dunque, ai sensi dell’art. 2077 co. 2 c.c., tale clausola sarà sostituita di diritto con le previsioni del CCNL in materia di durata del preavviso. Diversamente, ove venisse ridotto il preavviso per le dimissioni, tale previsione sarebbe valida ed efficace trattandosi di un trattamento di miglior favore per il lavoratore.
Il prolungamento del preavviso
Quanto all’ipotesi di prolungamento, è ammissibile la previsione dell’aumento del preavviso di licenziamento in quanto disciplina più favorevole per il lavoratore; al contrario, si è discusso a lungo sulla validità della clausola che aumenti il preavviso per le dimissioni.
Inizialmente la giurisprudenza riteneva valida la clausola inserita nel contratto individuale di lavoro che prevedesse un termine di preavviso per le dimissioni più lungo rispetto a quello stabilito per il licenziamento, ove (a) tale facoltà di deroga fosse prevista nel CCNL e (b) il lavoratore ricevesse quale corrispettivo per il maggior termine, un compenso in denaro o altri apprezzabili vantaggi, quali, ad esempio, la promozione ad una categoria professionale superiore (con conseguente aumento retributivo) e la corresponsione di un assegno ad personam (Cass. n. 4991/2015).
Fermo il recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c., la giurisprudenza oggi ammette che le parti possano regolare diversamente il termine di preavviso (sia datoriale che del prestatore), a prescindere che tale facoltà sia espressamente prevista dal CCNL, purché: (a) il patto di prolungamento attribuisca al dipendente ulteriori benefici (economici e di carriera) in funzione corrispettiva del prolungamento ed inoltre (b) la durata del prolungamento sia circoscritta secondo limiti di ragionevolezza da valutarsi caso per caso.
La sussistenza della corrispettività nelle reciproche concessioni non può essere valutata a priori in base a criteri prestabiliti, ma deve essere considerata alla luce del complesso dei diritti e degli obblighi in capo a ciascuna parte.
Le parti sono infatti libere di stabilire il corrispettivo del prolungamento, che potrebbe consistere nella “reciprocità dell’impegno di stabilità assunto dalle parti ovvero in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, consistente in una maggiorazione della retribuzione o in una obbligazione non-monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal lavoratore” (Cass. n. 14457/2017).
L’accordo di prolungamento del preavviso per le dimissioni sarebbe quindi legittimo se, ad esempio, venisse prolungato anche il preavviso per il licenziamento e il lavoratore ricevesse l’attribuzione di benefici economici e di carriera in funzione corrispettiva del vincolo assunto (Cass. n. 19080/2018) o venisse favorito dal computo di tale periodo di preavviso agli effetti dell’indennità di anzianità, dei miglioramenti retributivi e di carriera (Cass. n. 3471/1981, Cass. n. 5929/1979, Cass, n. 18122/2016).
Qualora il cd “patto di prolungamento” del preavviso fosse formalmente sorretto (solo) da un minimo incremento retributivo oppure (solo) da un altro minimo trattamento migliorativo rispetto a quello previsto dal CCNL (Cass. n. 19080 del 18.07.2018) e, per entrambi, non in sostanziale ed effettivo rapporto di corrispettività rispetto (ad esempio) ad una già preordinata progressione in carriera, tale patto risulterebbe privo di causa o comunque nullo per frode alla legge (art. 1344 c.c.) in quanto concretamente finalizzato a perseguire un interesse tipico assimilabile ad un patto limitativo della concorrenza, eludendone i limiti di specificazione dell’attività e di adeguatezza del corrispettivo (cfr. Cassazione civile sez. lav., 10/11/2015, n.22933).
Da ultimo, si rileva che, ove il patto di prolungamento del preavviso fosse nullo (per assenza delle condizioni di cui sopra), troverebbe applicazione la disciplina di cui all’art. 1419 co. 2 c.c. in materia di nullità parziale. Il contratto individuale di lavoro rimarrebbe quindi valido ed efficace, ma la clausola di prolungamento verrebbe sostituita ex lege dalla disciplina dettata dalla contrattazione collettiva ed il corrispettivo (netto fiscalità e contribuzione) eventualmente erogato a titolo di prolungamento costituirebbe un indebito oggettivo ai sensi dell’art. 2033 c.c., di cui il datore di lavoro potrebbe richiedere la restituzione.
Feliciana Salvatelli