Società a ristretta base e delitto di omessa dichiarazione
(art. 5, D.Lgs. 74/2000), costi inesistenti / indeducibili
Premessa
Nelle società di capitali a ristretta base partecipativa, si assiste ad un generalizzato addebito del delitto di omessa dichiarazione (art. 5, D.Lgs. 74/2000), per introiti asseritamente incassati per effetto della generazione di utili che si sarebbero prodotti in capo alla società di cui taluno è socio in conseguenza di una indebita deduzione di costi relativi ad operazioni asseritamente inesistenti o costi non documentati.
Si tratta, a ben vedere, di prospettazioni accusatorie diverse da quella in cui si addebitano ricavi extra-contabili (i.e. “vendite in nero”) per cessione di beni o prestazioni di servizi.
L’esame che ci occupa riguarda l’accusa ad un socio di aver conseguito il risparmio di imposta generatosi in capo alla società (non in capo al socio) connesso alla indicazione di componenti negativi di reddito (costi) regolarmente esposti a bilancio, laddove tale risparmio di imposte (IRES per la società) sarebbe strettamente connesso alla (asserita) indeducibilità / inesistenza del relativo costo.
Deve essere chiaro che la deduzione fiscale di un costo indeducibile (dovuto al mero disconoscimento di costi certi, effettivi e documentati per ragioni di competenza (art. 109 TUIR), inerenza (art. 55 TUIR) o per erronea applicazione di una regola fiscale per violazione del TUIR) non può costituire, di per sé, un illecito penale. In tal caso, l’indebita deduzione non genera maggior cassa in capo alla società, ma diminuisce le successive uscite a titolo di imposte, se e nella misura in cui, in termini prospettici, la società chiuda il bilancio d’esercizio con utili.
Nel caso che ci occupa, va preliminarmente verificato se i costi asseritamente indeducibili abbiano trovato contropartita in forniture e servizi effettivamente erogati e di cui la società abbia beneficiato, pagandone, anche questa circostanza di rilevante apprezzamento, i relativi corrispettivi.[1]
Il disconoscimento di costi effettivi/esistenti genera un reddito maggiore rispetto a quello dichiarato, ma non comporta maggiori ricavi perché genera unicamente una variazione in aumento del risultato civilistico in dichiarazione e non è sintomatico di utili extracontabili che si possano presumere distribuiti in modo occulto tra i soci nella società a base ristretta. È l’effetto tecnico dell’applicazione del sistema di derivazione del reddito d’impresa dal risultato civilistico (art. 83 TUIR), che conduce, in caso di rettifica del dichiarativo per costi indeducibili, all’aumento del reddito imponibile IRES in capo alla società e non genera né maggiori ricavi, né maggior utile civilistico (né tantomeno cassa / banca da distribuire ai soci).
Percezione degli utili extra-contabili
Per fondare un’accusa ex art. 5 D.Lgs. 74/2000 è indispensabile un accertamento circa l’effettiva apprensione, da parte del socio, di utili extracontabili che la società avrebbe asseritamente conseguito nell’anno di imposta. Quest’ultimo accertamento è necessario per provare la responsabilità del soggetto controllato anche in sede tributaria (indipendentemente dal diverso gradiente e riparto probatorio dei rispettivi autonomi procedimenti; sul punto cfr. anche Corte di Cassazione n. 44170/2023).
Sul punto, annoto che: “L’accertamento del reddito nei confronti di socio di società a ristretta base sociale, allorquando si basi sulla presunzione di distribuzione di utili sociali extracontabili, deve indicare degli elementi che consentano di verificare l’ipotesi dell’amministrazione finanziaria. In mancanza di qualsiasi dimostrazione dell’avvenuto trasferimento di liquidità di notevole entità dalla società al socio a titolo di distribuzione di utili, l’atto impositivo deve essere annullato perché non assolve all’onere probatorio di cui al nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546 del 1992” (cfr. Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Milano, 26 maggio 2023, n. 2969, in merito alla cd. presunzione di distribuzione di utili in società di capitali a base ristretta, alla luce del nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546 del 1992).
Parimenti è stato riconosciuto che per far valere la presunzione di distribuzione di utili extracontabili ai soci, nel contesto di società a ristretta base partecipativa o a base familiare, “l’amministrazione deve riscontrare, anche attraverso un accertamento sulle movimentazioni finanziarie o sugli atti giuridico-economici posti in essere dal ricorrente, l’esistenza di una effettiva percezione degli utili extra-bilancio” (Commissione Tributaria Provinciale di Bologna, sentenza n. 359 del 24.05.2022).
Ed ancora, si è evidenziato che “l’Ufficio avrebbe dovuto dimostrare, sia pure sulla base di presunzioni gravi precise e concordanti, che i maggiori ricavi accertati avrebbero fornito alla Società la liquidità sufficiente per distribuire ai soci il maggior reddito accertato in capo alla stessa e che lo stesso sarebbe stato distribuito pro quota agli stessi compartecipi. In particolare, l’AdE non fornisce alcuna prova, neppure per presunzione, di come si sia “materialmente” sviluppato l’ipotizzato flusso monetario attraverso il quale i maggiori “utili” societari sarebbero “pervenuti ” ai soci, in quanto tale passaggio logico non viene mai esplicitato” (cfr. Corte di Giustizia tributaria di secondo grado Puglia Taranto, 2 gennaio 2024, n. 3).
Le presunzioni tributarie non si applicano al processo penale
Se tali principi valgono nel processo tributario devono valere, a maggior ragione, nel procedimento penale, ove, come noto, l’onere della prova della penale responsabilità appartiene interamente alla pubblica accusa e la condanna deve fondarsi sulla prova del fatto di reato “al di là di ogni ragionevole dubbio[2]”.
Se la società ed il socio non hanno ricevuto danaro in restituzione, di certo il socio non ha introitato utili e tantomeno avrebbe dovuto dichiararli, così non potendosi ritenere provata la commissione del delitto di cui all’art. 5 D.Lgs. 74/2000.
Sotto diverso profilo, sussiste altresì indeterminatezza del momento di consumazione, considerato che per le persone fisiche l’obbligo di presentare il relativo dichiarativo consegue all’incasso e non va per competenza e, ciò assodato, spetta all’accusa individuare il momento (giorno / mese / anno) in cui l’imputato avrebbe percepito, ed in che misura, tali utili extracontabili. La questione va ben considerata rispetto alla diversa ipotesi di “vendite in nero”, laddove – se accertate – conducono, anche in via presuntiva, a far coincidere il momento dell’effettivo incasso con quello della cessione non dichiarata.
Certo è che la contabilizzazione (da parte della società) di componenti negativi di reddito asseritamente inesistenti o non sufficientemente documentati può astrattamente produrre un risparmio di imposta (che si traduce, peraltro, in minori uscite di cassa per la società) nell’anno successivo a quello in cui i relativi documenti fiscali sono stati formati. Ma da ciò non può conseguire alcun automatismo circa una percezione di utili extra-contabili (men che meno per un socio non amministratore) nel medesimo periodo d’imposta.
In altre parole, è necessaria non solo la prova (ancorché) indiziaria della percezione di un utile extra-contabile e del suo ammontare, ma – cosa ancora più rilevante sotto un profilo della struttura impositiva – l’individuazione del momento e della quantità in cui tale trasferimento di liquidità si sarebbe compiuto. La questione non è peregrina, considerando che, di regola, gli utili possono essere oggetto di una delibera distributiva – totale o parziale – in uno o più anni successivi all’esercizio in cui essi si sono formati.
Con specifico riferimento ai costi non documentati, la Commissione Tributaria di Bologna, ha precisato che l’indeducibilità del costo non declina in incremento della cassa sociale e in una più consistente disponibilità di denaro rispetto a quella contabilizzata (cfr. Commissione trib. Bologna, 24 maggio 2022, n. 359)[3]; talché, di conseguenza, non sussisterebbe alcun elemento positivo da distribuire ai soci e, nell’ottica dell’art. 5 D.Lgs. 74/2000, che essi debbano indicare nelle dichiarazioni dei redditi. Tale costo non dovrebbe essere – in ogni caso – calcolato al fine di valutare l’entità dell’imponibile non dichiarato e dell’imposta asseritamente evasa dal socio.
L’elemento soggettivo (dolo di evasione vs dolo di omissione)
Per integrare il delitto di omessa dichiarazione è richiesto il dolo specifico di evasione.
Si ricorda che: “in tema di reati tributari, la prova del dolo specifico di evasione, nel delitto di omessa dichiarazione (art. 5, D.Lgs. 74/2000), può essere desunta dall’entità del superamento della soglia di punibilità vigente, unitamente alla piena consapevolezza, da parte del soggetto obbligato, dell’esatto ammontare dell’imposta dovuta” (cfr. Cass. Pen., sez. III, 19 gennaio 2016, n.18936).
Ma non solo. Nel tracciare un confine specifico tra illecito penale e la dimensione dell’illecito tributario, la Suprema Corte (Sez. III pen., Sent. n. 44170 del 04-07-2023) ha chiarito che “Il reato è illecito di modo; il dolo di evasione è volontà di evasione dell’imposta mediante le specifiche condotte tipizzate dal legislatore penale- tributario. Se per il legislatore penale tributario nemmeno l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, o le false rappresentazioni contabili e i mezzi fraudolenti per impedire l’accertamento delle imposte, sono sufficienti ad attribuire penale rilevanza alle condotte di cui agli artt. 2 e 3, d.lgs. n. 74 del 2000, essendo necessario il fine di evasione, a maggior ragione il “dolo di omissione” non solo non può essere ritenuto sufficiente a integrare, sul piano soggettivo, il reato di cui all’art. 5, d.lgs. n. 74 del 2000, ma nemmeno può essere confuso con il dolo di evasione. La volontà omissiva prova la consapevolezza della sussistenza dell’obbligazione tributaria e del suo oggetto, e dunque di uno o alcuni degli elementi costitutivi della fattispecie, non prova il fine ulteriore della condotta…. Il dolo di evasione esprime l’autentico disvalore penale della condotta e restituisce alla fattispecie la sua funzione selettiva di condotte offensive ad un grado non ulteriormente tollerabile del medesimo bene tutelato anche a livello amministrativo. […]” e chiudendo sul caso specifico “non si può ritenere sufficiente, ai fini della prova del dolo specifico, la mera consapevolezza dell’entità dell’imposta evasa; l’entità dell’imposta evasa costituisce solo uno degli elementi del fatto tipico, la cui consapevolezza potrebbe, al più, giustificare un addebito a titolo di dolo generico, non di certo di dolo specifico che richiede un quid pluris rispetto alla mera consapevolezza dell’oggetto dell’omissione”.
La omessa dichiarazione è un fatto negativo, che non costituisce – di per sé – espressione positiva dell’elemento soggettivo del dolo specifico di evasione.
Francesco Fontana
[1] Quando la società sostiene un costo effettivo/esistente, che in sede di accertamento dovesse essere ritenuto indeducibile per ragioni di incompetenza/inerenza/violazione di norme fiscali, si genera infatti un maggior reddito imponibile IRES rispetto a quello dichiarato, ma il conto economico resta inalterato. I costi indeducibili, infatti, restano nel conto economico (risultato ante imposte), che quindi resta immutato, venendo unicamente ripresi tra le variazioni in aumento in dichiarazione nella rettifica operata in sede di accertamento (la ri-determinazione del reddito operata in sede di accertamento non comporta modifica del bilancio depositato nel registro imprese).
[2] Come ribadito dalla Suprema Corte, “le presunzioni tributarie sono elementi utili a formare, nella disamina completa e critica del compendio probatorio acquisito nel corso del dibattimento, il libero convincimento del giudice, non potendo invece costituire via più breve per una condanna, essendo assunte non con l’efficacia di certezza legale ma come dati aventi valore indiziario che, per assurgere a dignità di prova, dovranno trovare un riscontro oggettivo o in distinti elementi probatori o in altre presunzioni, purché gravi, precise e concordanti. Anche per tali indizi dovrà quindi essere seguito quel procedimento induttivo che consente di inferire con certezza il dato ignoto da quello noto, con la conseguenza che un’affermazione di responsabilità potrà essere fondata su elementi indiziari soltanto se gli stessi, specificamente indicati in motivazione e valutati nel loro nesso logico, permettano l’attribuibilità del fatto all’imputato oltre ogni ragionevole dubbio, nel senso che non solo venga dimostrato che il fatto può essere accaduto nel modo che si assume, ma anche che lo stesso non può essersi ragionevolmente svolto in modo contrario” (cfr. Cass. pen., Sez. III, 03/11/2020, n. 36915).
[3] “La società che contabilizza un costo che l’amministrazione finanziaria, in un secondo momento, reputa privo del carattere dell’inerenza o non idoneamente documentato, non genera per i soci distribuzione occulta di dividendi. Invero, il costo imputato a conto economico e recuperato a tassazione dall’AdE non interferisce con la consistenza dell’utile di bilancio e non offre la benchè minima informazione circa l’esistenza di una ricchezza ulteriore rispetto a quella contabile, suscettibile di essere distribuita. Conclusivamente questa Commissione ritiene che i costi recuperati alla società E. srl non hanno generato utili perché l’alterazione della base imponibile non presuppone che, presso la stessa società, ci siano riserve occulte costituite da denaro proveniente da operazioni non contabilizzate, perché nessuno ha mai messo in dubbio che l’indeducibilità di un costo determini ricadute sulla base imponibile dell’IRES e perché l’indeducibilità’ di un costo non è una categoria giuridica, ma un semplice effetto derivante dall’applicazione della disciplina del reddito d’impresa, dietro al quale possono collocarsi differenti cause”.