In più pronunce (di merito o di legittimità), si legge – non senza qualche perplessità e ricorsività interpretativa – che il recesso datoriale senza motivazione e/o giustificazione (o quando esse siano solamente apparenti) abilita, in regime Jobs Act, il prestatore ad accedere alla tutela indennitaria cd. “forte” di cui all’art. 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015.
Il tema è particolarmente sentito nei rapporti agenziali simulati (dove il recesso ex art. 1750 c.c. non necessiterebbe di motivazione scritta) e nelle ipotesi di recesso datoriale durante il periodo di prova il cui patto accessorio al contratto di lavoro dipendente sia affetto da nullità. La questione trova la sua sede, altresì e con altrettanto vigore, nei casi di licenziamenti senza specificazione scritta dei motivi o con motivazioni oggettivamente avulse dalla realtà aziendale o scritte “ad arte”.
De jure condito, la soluzione sopra riportata non può essere condivisa quantomeno nelle ipotesi in cui il licenziamento sia privo di alcun supporto motivazionale scritto ovvero di qualsivoglia giustificazione sostanziale. In tali casi, in virtù della formulazione dell’art. 4 D.Lgs. 23/2015, il recesso in esame dovrebbe ritenersi radicalmente inefficace per omessa motivazione e non per (mera) violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2 comma 2 L. 604/1966, giacché la violazione di tale requisito si rinviene nella carenza di specificità dei motivi (con conseguente applicazione dell’art. 4 D.Lgs. 23/2015 prima parte), ma non nella diversa fattispecie di sua assenza.
A tal approdo si perviene anche comparando l’ultima parte dell’art. 4 D.Lgs. 23/2015 con l’ultima parte del comma 6 dell’art. 18 L. 300/1970 (come novellato dal D.Lgs. 92/2012); in particolare, si annota la differente formulazione del disposto di legge e, segnatamente, la rimozione del lemma “difetto di giustificazione” sostituito da “sussistenza dei presupposti per …” ed il rinvio (anche) alle tutele di cui all’art. 2 D.Lgs. 23/2015 che diversamente non avrebbe ragion d’essere (in quanto gli altri casi di nullità testuali o di sistema sono già enunciati all’interno dell’art. 2 D.Lgs. 23/2015).
Nelle fattispecie in esame, a mio sommesso avviso, accertata l’inefficacia (rectius: nullità) del recesso datoriale per violazione dell’art. 2 L. 604/1966 e per carenza assoluta di giustificazione, va pronunziata la condanna datoriale alla reintegrazione del prestatore nel posto di lavoro ex art. 2, comma 1, D.Lgs. 23/2015, oltre al risarcimento del danno nei noti termini e misure di legge.
Tale conclusione è coerente con una lettura costituzionalmente orientata del contesto vigente, in cui la Consulta ha dichiarato “costituzionalmente illegittimo l’art. 18, comma 7, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’art. 1, comma 42, lett. b), della legge 28 giugno 2012, n. 92, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, « può altresì applicare » — invece che « applica altresì » — la disciplina di cui al medesimo art. 18, comma 4.”.
Orbene, non è peregrino ritenere che la norma novellata dello Statuto dei lavoratori (nella porzione) attinta da incostituzionalità assolva la medesima funzione e sia espressione della stessa finalità regolatoria di protezione di cui all’art. 3 comma 1 D.Lgs. 23/2015 riferita ai recessi per motivo oggettivo in regime Jobs Act. Pertanto, a pena di incorrere in violazione dell’art. 3 della Carta Costituzionale, laddove risulti accertata l’assenza di motivazioni del recesso, la fattispecie sarà riconducibile all’art. 2 D.Lgs. 23/2015, non essendo assentibile che il soggetto datoriale (che abbia omesso di “indicare” la motivazione) si trovi nella posizione processuale di vantaggio di poter introdurre (a posteriori) ed argomentare nel corso della lite una qualche motivazione oggettiva, in modo da sfuggire all’applicazione della maggior tutela prevista nel caso di accertata illegittimità del licenziamento per giusta causa.
Non si mette in discussione la discrezione del Legislatore di adottare soluzioni differenti nel tempo. La questione è un’altra.
Un licenziamento privo di motivazione scritta (e a questo caso pare doversi equiparare il recesso datoriale per motivo oggettivo inesistente o pretestuoso) costituirebbe il mezzo per eludere una norma imperativa (e, pertanto, in frode alla legge ex art. 1344 c.c.), posto che tale contegno permetterebbe al datore di sottrarsi all’applicazione del rimedio della reintegrazione. Il che è un nonsenso, perché si consentirebbe di poter scegliere, a piacimento ed arbitrio datoriali, tra un licenziamento per motivi oggettivi o soggettivi e, inaccettabilmente, di licenziare (subendo “solo” la tutela indennitaria forte in luogo della reintegrazione) senza specificare per iscritto alcuna motivazione e così “saltando a piè pari” i rischi del regime sanzionatorio derivanti dalla dimostrazione diretta in giudizio dell’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (in caso di motivi soggettivi) e, addirittura, di impedire al lavoratore di tentare tale dimostrazione.
Sotto altro connesso profilo, una diversa opinione solleverebbe seri dubbi di incostituzionalità: (a) dell’art. 3 comma 2 D.Lgs. 23/2015, nella parte in cui prevede che “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore” il giudice annulli il licenziamento con ogni successivo effetto previsto dalla citata norma, ed altresì (b) dell’art. 3 comma 1 D.Lgs. 23/2015, laddove esclude che nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia accertata l’assenza di giustificazione, il giudice non annulli il licenziamento anziché applicare il medesimo regime sanzionatorio di cui all’art. 3 comma 2 D.Lgs. 23/2015, detti profili di incostituzionalità risiedendo nella violazione dell’art. 3 della Costituzione Italiana, per disparità di trattamento delle due disposizioni tra loro ed altresì rispetto a quanto previsto ai sensi dell’art. 18, comma 7, secondo periodo, L. 300/1970, per come oggi vigente a seguito della pronunzia della Corte Costituzionale, 01/04/2021, n.59.
Francesco Fontana